Si fa presto a dire politiche attive per il lavoro

Perché un Paese ricco deve avere tante persone e famiglie povere? E che rapporto c’è tra la povertà e il fenomeno genericamente definito lavoro precario dentro il quale stanno, quando ci stanno, molti giovani scarsamente considerati non dai “loro padri” ma da una filosofia produttiva che non serve a creare nuovo lavoro ma ad abbattere il suo costo? L’ipocrisia fa passare per verità luoghi comuni che non reggono all’approccio analitico dei movimenti che si registrano nel mercato del lavoro italiano, nel quale le imprese sono in perenne attesa degli sgravi contributivi, senza i quali le stesse non vogliono assumere più nessuno, tranne le figure professionali che hanno mercato e passano attraverso rapporti diretti o con le con agenzie specializzate in selezione del personale. Gli ultimi dati Istat hanno scatenato la solite forzature di esponenti di governo e di opposizione che confermano la scarsa propensione dei nostri politici ad analizzare i fenomeni sui quali intervenire strutturalmente.

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Pur nella positività relativa, questi dati confermano la curiosa situazione di un mercato del lavoro in cui cresce sia l’occupazione che la disoccupazione, giovanile in particolare, sulla quale si tuffa la Confindustria per giustificare la richiesta di ben 10 miliardi di sgravi contributivi e forse anche (il populismo è una malattia contagiosa che non si manifesta in un solo modo) per mettere in pista il Ministro Carlo Calenda in vista delle prossime elezioni politiche. Il dato di fatto che emerge sempre più chiaramente -in evidente contrasto con la dichiarata volontà di chi ha impostato e voluto il jobs act- è quello del continuo aumento del lavoro volutamente instabile e frantumato che non permette di fare progetti di vita, il quale, unitamente alla consistente povertà, neppure “equamente” distribuita, conferma che l’Italia non è affatto uscita dalla sua crisi, se per tale si intende la realtà sociale di fatto. È un controsenso considerare uscito dalla crisi un Paese che ha la quantità di poveri, di disoccupati, di sotto occupati con retribuzioni basse e bassissime che ci sono in Italia, non adeguatamente aiutati dal sistema ad uscire dalla condizione in cui si trovano, anzi! Domandiamoci senza acrimonia nei confronti di nessuno, ma solo per capire se stiamo uscendo da una crisi o ci stiamo entrano sempre più, se oggi è più facile il percorso a ritroso dal lavoro alla precarietà e talvolta alla povertà, o quello virtuoso che riporta alla pienezza di vita le persone tramite il lavoro.

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Questo non significa negare i miglioramenti relativi in atto, che tuttavia bisogna saper leggere e interpretare nella prospettiva di ciò che occorre fare se si vuole rimettere al centro il lavoro, concepito come pilastro della democrazia sostanziale, fonte di libertà e dignità della persona. Il buon Gentiloni esulta perchè “ora lavorano 23 milioni di italiani (ora s’intende nel mese di luglio, al colmo di una stagione turistica da record ), ma sottovaluta il fatto che si tratta di una crescita senza qualità. Meglio di niente? Certo, ma è profondamente sbagliato prendere a riferimento il negativo per tramutare in positivo il lavoro precario -che, ripetiamolo, non è la buona e inevitabile flessibilità organizzativa di cui hanno bisogno le imprese e anche i lavoratori, se contrattata e nei limiti del possibile condivisa-, i soldi alle imprese per la formazione che non fanno o per l’occupazione aggiuntiva che non creano.

Giovanni Gazzo (Presidente Uiltucs Lombardia)