Il valore di un viaggio – Auschwitz 2018

L’esperienza di cui sono portatori i superstiti dei campi di concentramento nazisti, è completamente estranea alle nuove generazioni e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che gli anni passano. Per i giovani degli ’50 e ’60, riguardava i loro padri: se ne parlava in famiglia, i ricordi conservavano ancora la freschezza dell’autenticità. Per i giovani degli anni ’80 e ‘90, sono cose dei loro nonni: lontane, sfumate, “da manuale di storia”, a volte anche inattendibili. Cosa dovrebbero voler dire invece, per chi è ancora più giovane? Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, quindi propensa ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese o di giorno in giorno, sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge, che i social media certamente contribuiscono ad alimentare e ingigantire. È con questa consapevolezza del trascorrere inevitabile del tempo che il progetto “In Treno per la Memoria” si rivolge agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado. Esso è, innanzitutto, un dovere morale nei confronti di chi possiede l’avvenire.

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Il Coordinamento Giovani UIL Lombardia ha ideato per l’occasione l’hashtag “#IOSONOMEMORIA”. Un hashtag è un tipo di etichetta (tag) utilizzato su alcuni servizi web e social network (Twitter e Facebook, ad esempio), la cui funzione è permettere agli utenti di rintracciare determinati contenuti utilizzando delle parole chiave precedute dal diesis (cancelletto). Per rivolgersi alle nuove generazioni, è quindi necessario adeguare i nostri strumenti ai loro.

Ma, per quale motivo, questa pagina oscura del nostro passato deve essere ricordata? Le passioni e i comportamenti umani non cambiano mai radicalmente e dunque, anche se le istituzioni e le tecnologie si trasformano, la storia è destinata a ripetersi. Non tanto una ripetizione dell’identico, all’avvento cioè di un regime nazista nel centro Europa, quanto piuttosto una proliferazione di quei fattori che hanno reso l’orrore possibile – magari in altri paesi, sotto altro nome e con nuove giustificazioni, non raggiungendo forse lo stesso parossismo ma producendo massacri e sofferenze senza fine. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti etnici. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti e dagli incantatori, da quelli che sono e scrivono “belle parole” non sostenute da valide ragioni. Non esistono d’altronde, secondo Primo Levi, problemi che non possano essere risolti attorno a un tavolo, purché ci sia volontà di giungere ad un buon compromesso e la fiducia reciproca.

foto di Giulia Marra

Secondo Primo Levi, le notizie sui campi di sterminio nazisti hanno cominciato a diffondersi nell’anno cruciale del 1942. Erano notizie sicuramente molto vaghe, tuttavia fra loro concordi: delineavano una strage di proporzioni così vaste, di una crudeltà così spinta, di motivazioni così intricate, che chiunque le ascoltasse tendeva a rifiutarle per la loro stessa enormità. È significativo come questo rifiuto fosse stato previsto con largo anticipo dagli stessi colpevoli e di come sia, ad oggi, ritornato ad essere fortemente plausibile. Decidiamo di credere a ciò che ci viene raccontato dagli insegnanti e descritto minuziosamente dai registi compiendo un atto di fede, ma una parte di noi, piuttosto risoluta nella propria posizione, continua a rifiutare la realtà di ciò che è stato, perfino varcando i cancelli di Auschwitz I o ripercorrendo i binari di Auschwitz II (Birkenau). La quasi completa estraneità ai fatti coincide con il rifiuto orgiastico del senso morale.

Altrettanto realistica è quindi l’autoaccusa di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana. Avere un compagno al proprio fianco più debole, più sprovveduto, o più vecchio, o troppo giovane, che ti ossessionasse con le sue richieste d’aiuto o col suo semplice “esserci” (che di per sé è già una preghiera), sembra essere una vera e propria macabra costante dei Lager, anche dopo tutti questi anni quando, a gruppi come il nostro, viene concessa la possibilità di varcarne i cancelli. La richiesta di solidarietà di una parola umana, di un consiglio, anche solo di un ascolto, era ed è permanente ed universale. (Ecco uno dei ruoli chiave del movimento sindacale, in Italia e nel mondo). Al tempo, veniva soddisfatta molto di rado poiché mancava il tempo, lo spazio, la privatezza, la pazienza, la forza; tutte prerogative che invece sono ritrovate nelle modalità in cui il viaggio si è svolto e nei miei colleghi di lavoro. Qualcuno di noi, avendo partecipato alle edizioni precedenti del progetto, si è dimostrato piuttosto propenso ad aiutare chi invece non aveva mai avuto un’occasione simile; forti dell’idea che l’aver già vissuto, a solo un anno di distanza un’esperienza simile, li potesse in qualche modo rendere immuni alla violenza, si sono poi scontrati con la realtà: non è il contesto a determinare le dinamiche dei fatti, quanto chi vi partecipa, ognuno con i propri pregi e difetti. È così che Auschwitz I e Auschwitz II (Birkenau) possono avere un aspetto diverso e infondere sensazioni altrettanto eterogenee. In alcuni casi, seppur piuttosto rari, piacevoli come un raggio di sole che accarezza la propria pelle in una giornata gelida.

“Perché io sì e voi no?”, mi sono chiesta ripetutamente: era il mio codice morale civile che implorava una spiegazione. Provi vergogna perché sei vivo e a un altro, a tanti altri, è stato impedito di esserlo. Ed in specie, di uno più generoso, più sensibile, più savio, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere, motivo per cui ti esamini continuamente, accettando a malincuore anche una bottiglietta d’acqua che ti è stata offerta per aiutarti a smettere di singhiozzare convulsamente. Era inutile chiudere gli occhi o volgere le spalle alle gigantografie in cui uomini, donne e bambini non erano più tali, perché l’orrore era tutto intorno, in ogni direzione. Quel male dimostra che l’uomo, il genere umano, noi insomma, siamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore. Ero quindi nella condizione di dover scegliere se dedicarmi all’affetto che i miei compagni di viaggio mi stavano riservando con pacatezza e ininterrotto coraggio oppure immaginare delle possibili storie per ognuna delle scarpine esposte nelle teche.

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Nessuno salutava, nessuno sorrideva, come invece era capitato più volte durante il viaggio; un sentimento sembrava coinvolgerci e caratterizzarci più o meno tutti: la vergogna, quella che la gran parte dei tedeschi non conobbe, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo. Quelle persone avevano vissuto per mesi o per (sfortuna o fortuna?) anni ad un livello animalesco: le loro giornate erano state ingombrate dall’alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura e lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevano sopportato la sporcizia, la promiscuità e la destituzione. Per ottenere questo risultato era stato necessario fingere che nella maggior parte dei casi la sopravvivenza selettiva fosse un obiettivo raggiungibile e che perciò il comportamento dettato dall’interesse all’autoconservazione fosse razionale e sensato. Una volta scelta l’autoconservazione come criterio supremo di azione, il suo prezzo poté essere gradualmente ma costantemente elevato, finché tutte le altre considerazioni non furono svalutate, tutte le inibizioni morali o religiose infrante in mille pezzi, tutti gli scrupoli ripudiati o respinti fino a far dubitare di se stessi come esseri umani o, semplicemente, come “esseri viventi”.

Più e più volte ho avvertito da parte degli studenti, durante le interviste condotte durante il viaggio di ritorno, il desiderio di sapere chi erano, di che stoffa erano fatti, gli “aguzzini”. Il termine fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti e mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso. Erano però stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Ed è a queste considerazioni, che la vergogna diventa tangibile ed indelebile: non è mai esistito un “noi” ed un “loro”. Esercitarsi ad individuare la “paternalità” del crimine dell’Olocausto, l’aspetto in cui deve risiedere la sua spiegazione è contemporaneamente un esercizio che assolve chiunque altro e, in particolare, qualunque altra cosa. L’ipotesi secondo cui i responsabili incarnano una malattia della nostra civiltà e non il suo prodotto terrificante ma coerente, sfocia non soltanto nella consolazione morale dell’autoassoluzione, ma anche nella tremenda minaccia dell’inerzia morale e politica. Tutto è avvenuto “fuori di qui”, in un altro tempo e in altro paese: quanto più “loro” sono colpevoli, tanto più “noi” siamo integri e tanto meno dobbiamo preoccuparci di difendere questa integrità. Una volta presupposta la coincidenza tra attribuzione delle colpe e individuazione delle cause, l’innocenza e la saggezza del modo di vivere di cui siamo così orgogliosi non hanno bisogno di essere messe in dubbio e possiamo fare sogni tranquilli. È vero che l’Olocausto ha avuto luogo più di mezzo secolo fa, ed è altrettanto vero che i suoi esiti immediati stanno rapidamente sprofondando nel passato. La generazione che ne ha avuto esperienza diretta è ormai quasi pressoché scomparsa. Ma – e si tratta di uno spaventoso, sinistro “ma” – le istituzioni, un tempo familiari, che l’Olocausto ha reso di nuovo misteriose, sono ancora parte fondamentale della nostra vita. Esse non sono affatto superate. E dunque non è superata la possibilità dell’Olocausto.

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Solo il sentimento della vergogna può aiutare a ricostruire il significato morale di una terrificante esperienza storica e con ciò a contribuire a esorcizzare lo spettro dell’Olocausto, che ancora oggi turba la coscienza umana e ci fa trascurare la vigilanza nel presente per consentirci di vivere in pace con il passato. In pochi sono realmente sicuri di come reagirebbero di fronte ed un estraneo che bussa alla porta di casa propria chiedendo, direttamente o indirettamente, di sacrificare se stessi e la propria famiglia per salvargli la vita. A molti, questa scelta è stata risparmiata. Quanti di noi invece, negando un rifugio a chi ce lo avesse chiesto, sarebbero pienamente in grado di dimostrare, dopo aver calcolato accuratamente il numero delle vite salvate e perdute, la piena razionalità della scelta di respingere l’estraneo. Il significato più che mai attuale dell’Olocausto è dato dalla lezione che esso contiene per l’intera umanità, ovvero la dimostrazione di quanto sia facile per la maggior parte degli individui – in una situazione nella quale non esiste una scelta “buona” o che rende quest’ultima assai costosa – prendere le distanze dalla questione del dovere morale, adottando invece i precetti dell’interesse razionale e dell’autoconservazione ed è su questo, che come Sindacati, abbiamo il dovere di lavorare sinergicamente e senza sosta. Il male non ha bisogno né di seguaci entusiasti, né di un pubblico plaudente. Basterà il dover scegliere se conservare o meno il proprio benessere (e quello dei propri cari), incoraggiati dal pensiero che induce a dire: «non è ancora il mio turno – grazie a Dio! – posso ancora salvarmi!». Il male è una vera e propria scelta e solo il fare esperienza, il fare informazione, può suggerire a ciascuno di noi la via percorribile perché il male non faccia il proprio lavoro.

 

Come già accennato in precedenza, agli studenti sono state rivolte delle semplici domande, raggruppabili in tre macro tematiche differenti, con l’unico intento di testare l’efficacia de “In Treno per la Memoria”. È bene fin da subito precisare che la selezione del campione del sondaggio, considerando il contesto che non avrebbe permesso di fare affidamento su altre modalità di indagine, si fonda esclusivamente sulla volontà di insegnanti ed intervistati di voler collaborare apertamente con il nostro gruppo. È emerso, sia da un’analisi approfondita condotta successivamente sui dati rilevati, sia dal primo confronto diretto (svoltosi durante il viaggio di andata, il secondo è avvenuto durante il viaggio di ritorno) che alla maggior parte degli studenti non era ben chiaro chi fossero gli organizzatori del progetto (istituti scolastici esclusi, avendone avuto un rapporto constante dall’inizio dell’anno scolastico), ovvero i Sindacati. La maggior parte di essi inoltre, dichiara di non avere la minima idea, neppure per sentito dire, di quali siano i corpi sociali intermedi principali, pur avendo avuto un ruolo significativo nella storia, nella cultura ed ovviamente nella politica economica e sociale del nostro Paese. I giovani concludono quindi la scuola secondaria di secondo grado senza alcuna percezione del significato del ruolo della rappresentanza dei corpi sociali che compongono il nostro paese. La visione astratta di questa composizione, quando anche accennata, non aiuta la necessaria consapevolezza anche nella auspicabile partecipazione al dibattito già più volte alimentato, sul bisogno o meno dei corpi intermedi. Ulteriore elemento di distanza che rischia di risultare incolmabile tra confederalità e nuove generazioni che si affacciano al mondo del lavoro. Auspicabile, a meno che il nostro intento non sia in realtà dare vita a false speranze e retoriche ridondanti, rivedere il rapporto tra sindacato e partecipanti al progetto In Treno per la Memoria. Il nostro percorrere più e più volte i corridoi del treno per poter conoscere in prima persona (facendoci a nostra volta ri-conoscere), coloro a cui si stanno dedicando i propri sforzi e su cui si dovrebbero fondere valori che vanno oltre qualsiasi colorazione politica, ha avuto qualche effetto positivo. Su questo bisogna lavorare.

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Giulia Marra

Collaboratrice del Coordinamento Giovani UIL Lombardia

Studentessa del Corso di Laurea Magistrale in Sociologia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca